GIUSEPPE TERRAGNI

a cura di Emanuele Casalena

Maria Casartelli è l’ultima persona a vedere Giuseppe vivo, è la fidanzata, abita a 300 metri da casa sua, l’unica alla quale chiedere aiuto. E’ il 19 luglio del ’43, a Roma gli alleati guernicano S. Lorenzo, sei giorni dopo sarà l’apostasia di Grandi. Un pentolino con il latte bolle sul fornello acceso, Giuseppe avverte i sintomi del male improvviso, esce di casa lasciandosi le porte aperte, raggiunge l’appartamento di Maria, lei lo vede dal balcone, gli si precipita incontro, apre la porta, Tump lui s’accascia sul pianerottolo battendo la testa, muore stecchito a 39 anni. Fu l’ ictus cerebrale o il colpo secco la causa del vuoto della morte?(1) Resta un mistero, solare invece è che il Paese perdeva il suo architetto migliore, oggi diremmo, con acronimo terribile, un archistar. La fine di un uomo spesso è il sunto del suo viaggio, la clip chiude il cerchio dell’esistenza, dando ragione al peregrinare d’ Odisseo verso Itaca, ma qui Penelope portava il nome di Maria.
Nel luglio del ’41 l’Italia entra nella steppa, con il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, affianca le truppe germaniche nell’operazione Barbarossa”: è la penetrazione nella vagina bolscevica dell’U.R.S.S. di “Baffone”. Giuseppe Terragni, richiamato alle armi già dal luglio del’39, spedito nel ’41, col grado di Tenente, sul fronte dei Balcani, viene comandato in Unione Sovietica conquistandosi sul campo il grado di Capitano d’artiglieria. Lui, partito dalla retroguardia del fronte, chiese ed ottenne di battersi in prima linea fino alla ritirata rovinosa dopo Stalingrado. Non fu solo una questione di stile, piuttosto di fede convinta nella vittoria possibile sull’orso caucasico.
La temerarietà fisica e mentale di Terragni però implode, l’esaurimento nervoso spalanca l’abisso, dopo vari ricoveri, il 20 gennaio del ’43 viene rimpatriato. Trascorrerà sei mesi di calvario tra gli Ospedali di Cesenatico e il Centro neurologico di Pavia, viene sottoposto alla cura sperimentale dell’ elettroshock ma un concreto rifiorire della sua personalità non c’è, si torna a Como a casa sua.
Furono quelli quattro anni senza le notti passate a disegnare, con la sigaretta tra i denti tenendo come amico delle stelle il suo gatto Demiurgo. Ricordo le mie di notti al tavolo inclinato, sempre il fumo a stuzzicarmi le idee e un ragno amico che calava giù dal filo, giunto alla mia altezza s’arrestava, dimenava le zampette, immagino un saluto, se ne stava lì fermo a farmi compagnia.
Ad Architettura a Roma, sul finire degli anni ’60, c’era l’Idra del ’68, di quel 1° marzo 1968 passato agli annali per la battaglia di Valle Giulia, due ore e mezzo di botte violentissime tra studenti e la Polizia di Stato inviata dal Ministro dell’Interno Paolo Taviani perché “le forze dell’ordine non daranno in nessun caso l’impressione di vuoto di potere che dettero nel 1922 e che furono tra le cause che portarono al fascismo». (2)
La Facoltà, nata nel ‘33 dalla matita d’un grande intellettuale Marcello Piacentini, era staccata fisicamente dalla Città Universitaria, era una bolla libera anche della rivoluzione studentesca, ma questo richiederebbe un tomo tutto suo. Dal ’64 il demiurgo di Storia dell’Architettura moderna era Bruno Zevi, laurea ad Harvard alla Graduate School of Design nella Seziona architettura diretta da Walter Gropius, entrambi ebrei emigrati per via delle leggi razziali. L’aula dove incantava con le sue affabulazioni, alla Carmelo Bene, era zeppa di studenti affascinati dalla sua prosa oratoria quanto dal papillon a pois e dalla pipa, un appoggio chic al suo pensiero. Giuseppe Terragni, il M.I.A.R. non c’erano in quelle dotte lezioni, erano fascisti sepolti nelle foibe della dannazione eterna dalla critica resistenziale tout court. Poi c’era appunto lì quel ’68 caldo d’un rosso sempre più intenso, meglio virare sull’esperienza dei kibbutz ebraici assimilabili alle Comuni agricole cinesi della Rivoluzione culturale maoista, leggenda anche delle guardie rosse nostrane.
Eppure proprio Zevi, nel 25° della morte di Giuseppe Terragni, aveva vergato un articolo sul n. 153 de L’architettura del luglio ‘68 terminando con queste parole:
“Tra cicloni di forze distruttive e nichiliste, minata dall’indifferenza, s’apre ancora una scelta. Questo fascicolo può servire semplicemente a titolo consolatorio. Oppure, incitare ad una ripresa delle valenze non utilizzate dell’architettura di Terragni, così densa di ipotesi e feconda di prolungamenti. Ai giovani, agli studenti dovrebbe indicare come il movimento moderno, con la sua enorme carica contestativa, non sia appannaggio e fregio dei padri e dei fratelli maggiori, ma costituisca un’eredità splendida e tremendamente pesante, tutta da reinvestire”.
Le valenze non utilizzate dall’architetto comasco erano, per Zevi, la sintassi dell’architettura organica di Frank Lloyd Wright che muoveva da dogmi di fede laica, non contrattabili, la democrazia politica ed economica, la piena libertà di pensiero, l’antirazzismo, il no alla retorica monumentale dei regimi. Terragni, per lui, aveva infranto la rete delle ragnatele passatiste cogliendo l’afflato dell’architettura “attuale”, aveva partorito una sintassi moderna nella composizione degli spazi, ricca di proposizioni linguistiche innovative, ma l’albero del Razionalismo gli era cresciuto nell’utero della Tradizione, lì era l’incesto.
Un esponente di Giustizie e Libertà, in coerenza, non poteva che sostenere questo. Era vero? Forse era solo una questione di coraggio: riconoscere nell’opera di Giuseppe l’“enorme carica contestativa” versata come benzina nel bosco variegato dell’architettura fascista.
Quando, recandomi al liceo in cui ho insegnato, mi soffermavo ad osservare le palazzine in stile umbertino del mio quartiere natio Castro Pretorio, mi colpivano le date incise sui cartigli, tutte di fine ‘800. Quell’Italietta ruspante era in retrovia per l’edilizia e l’urbanistica d’impostazione piemontese. Il cardo, il decumano per il tracciato viario, neoclassicismo austero per le facciate dei palazzi. Un grido strozzato sul Carso lo aveva lanciato Antonio Sant’Elia il visionario futurista.
Il Razionalismo vide la luce nel ‘26 nella città Ambrosiana, un gruppo di giovani architetti usciti dalle Scuole Superiori di Architettura fonda il “Gruppo 7”, i loro cognomi sono: Rava (figlio del Governatore della Libia), Larco, Frette, Figini, Pollini, Terragni e Castagnoli cui subentrerà Adalberto Libera. Similmente al gruppo Novecento Italiano, alchimia di Margherita Sarfatti nella pittura, anche qui i “camerati” si separeranno non senza aver promosso il MIAR (Movimento Italiano per l’Architettura Razionale) alla “Prima Esposizione Italiana di Architettura Razionale” tenutasi a Roma nel ‘28 alla presenza di Mussolini.
Era l’atto di nascita dell’architettura fascista, del fascismo movimento, rivoluzione di spirito anarchico nazionalista, un dato da tenere ben presente per capire la coniugazione di spinte progressiste germogliate dall’albero unico, nel suo genere, della Tradizione italiana nelle Arti.
A questo matrimonio s’appella Paolo Portoghesi nella rilettura post moderna del Razionalismo italiano, un’operazione giustificativa del ritorno negli anni ’70 alla ruminazione della sintassi accademica d’ordini, stili, timpani e colonne.
Tra il ’26 e il maggio del ’27 il periodico “Rassegna Italiana” pubblicò quattro articoli firmati da Carlo Enrico Rava con i quali il gruppo tracciava i nuovi percorsi dell’architettura italiana in osmosi con le teorie di C.E. Jeanneret-Gris detto Le Corbusier, l’olandese De Stijl, con un occhio alla Deutscher Werkbund ( Lega tedesca artigiani ), qualcuno sussurra al Costruttivismo sovietico.
L’architettura odierna è un corpo astratto fluttuante oltre i confini etnici, religiosi, culturali, non è carne del relativo ma eunuco universale. Funziona come un cellulare, oggetto ibrido ma altamente invasivo al punto da strizzare i linguaggi, con questo mutando geneticamente il libero pensiero. Perché è un falso che la tecnologia come la scienza siano neutrali, tanto meno l’architettura.
Per noi invece quella organica di Wright non era trasferibile tout court dalle praterie alla vecchia Europa, le Villes Radieuses di Le Corbusier da Parigi al Magreb fino in al Sud America restarono decine di onanismi sulla carta, fatta eccezione per Chandigarh la città dell’utopia demiurgica del Corvo, la meno indiana dell’India.
Questo per chiarire che l’architettura non è un prodotto individuale calato sugli umani a miracol mostrare ma epifania del tessuto socio-culturale di pertinenza d’un popolo, lungo il suo tempo dove il presente si giustifica col viaggio precedente elaborando in sintesi il futuro.
Terragni coniuga creatività, conoscenze tecniche d’avanguardia e analisi genetiche non potendo prescindere dal magma storico di un Paese come l’Italia. Soltanto da questo sforzo di composizione l’architettura prende il respiro d’un essere vivente, fatto di anima e corpo, nato da quella madre non figlia di N.N.. Così nella sua opera riscopriamo la purezza delle geometrie, l’armonia musicale delle proporzioni matematiche tra piante e prospetti, la simmetria mediata, il ritmo esterno-interno scritto su uno spartito di pause tra pieni e vuoti, opacità e trasparenze, perché no la sacrale monumentalità. E’ operazione di rara saggezza in quanto l’architettura, madre delle arti, “torna” ad avere funzione pedagogica, una maestra che educa, forma, attraverso spazi dialettici i propri fruitori. Parafrasando il Manifesto della pittura murale potremmo dire: “L’architettura fascista è architettura sociale per eccellenza. Essa opera sull’immaginazione popolare e più direttamente… ispira le arti…” Questo spiega quel lavorare gomito a gomito, febbrile, tra Giuseppe Terragni e Mario Sironi, entrambi presenze inquietanti del “salotto” di Margherita Sarfatti.
La città di Meda è in Brianza, dista pochi kilometri da Milano, vi nasce Giuseppe Terragni il 18 aprile 1904, suo padre Michele è del mestiere, fa il costruttore, come dire che il bambino respira l’odore di calce sin dall’infanzia. Per seguire gli studi la famiglia trasferisce il ragazzino a Como presso parenti, fino al Diploma all’Istituto Tecnico preso nel ’21. Giuseppe si iscrive alla Scuola Superiore di Architettura del Politecnico milanese, laurea nel ’26, gli restano meno di 15 anni di professione d’ architetto. A dicembre dello stesso anno firma l’atto di nascita del Razionalismo Italiano con ad altri sei amici, fiorisce il “Gruppo 7”. Nel ’27 torna nella sua Como per aprirvi uno studio con Attilio il fratello ingegnere. Prima ancora, durante i suoi studi, aveva viaggiato dalla Francia alla Germania all’Austria di Adolf Loos ch’aveva sentenziato: “l’ornamento è un delitto”, aveva colto il germoglio dell’Esprit Nouveau. Dal vento delle Secession era nato quello spirito, chiamato riduttivamente Funzionalismo, simbiosi, tra l’altro, tra architettura e design, progettazione integrale dalle travi alle maniglie. Michelangelo n’era stato l’antesignano nella Biblioteca Laurenziana di Firenze.
Le proposte progettuali del Gruppo 7 sono eversive tanto da suscitare critiche parruccone all’Esposizione dell’Architettura Razionalista del ’28, ma il Partito, in quel frangente, tiene la rotta a questi giovani eretici che vogliono allineare l’Italia al resto del mondo.
E’ del ’29 del primo progetto comasco completo, finito di Terragni: l’eretica Novacomum, totalmente abusiva, rispetto alla prima eclettica formulazione progettuale.
Si tratta di un’unità abitativa composta da appartamenti (otto per piano) fittati a pigione. Il prisma è pulito da ogni ornato, il tetto è piano, le finestre si susseguono in continuità simulando il nastro di Le Corbusier, il “pezzo forte” è la cerniera d’angolo, un volume cilindrico eroso su quattro piani chiusi al colmo dall’ortogonalità del quinto, una prua sui vuoti sottostanti chiusa dalla trasparenza della finestra d’angolo. Novacomum è il prototipo dell’architettura razionalista italiana dal quale discenderanno soluzioni residenziali nei decenni successivi compreso il dopoguerra.
La città comasca, già nel ’26, aveva bandito un pubblico concorso per il Monumento ai caduti nella Grande Guerra, oltre seicento. L’affidamento dell’incarico però era rimasto in sospensione dopo le due fasi concorsuali. Nel ‘30, per volontà di F. T. Marinetti, si decide che il progetto deve essere uno schizzo di Antonio Sant’Elia per una centrale elettrica in omaggio all’architetto futurista caduto da eroe sul Carso. Fatto sta che dopo lungaggini e diatribe all’italiana, l’esecuzione del manufatto viene affidata ai fratelli Terragni, Attilio che ne curerà la struttura portante in cemento armato, Giuseppe gli interni del sacello, la cripta, i percorsi. La torre, alta 33 metri, resterà fedele allo schizzo originale di Sant’Elia.
L’edificio, costruito su un lotto rettangolare, venne progettato da Terragni nel ‘32, inaugurato nel ‘36. La pianta è quadrata, reminescenza di Brunelleschi, L. B. Alberti ma anche di Le Corbusier (villa Savoye) con il lato di 33.20 ed altezza di 16.10 m sviluppata su quattro piani fuori terra. E’ un prisma puro sul quale l’architetto scava i vuoti proponendo una simmetria di compensazione. Ogni facciata è autonoma rispetto alle altre segno del metodo progettuale: si parte dalla risoluzione spaziale delle funzioni interne dalle quali fioriscono gli esterni. Lo scheletro su Piazza del Popolo mette volutamente in risalto la struttura verticale portante dei pilastri tagliati dall’orizzontalità dei solai. Le specchiature vetrate permettono un dialogo continuo tra interno ed esterno ma portano con sé anche un messaggio politico: la rivoluzione fascista è trasparente. Internamente il cuore è la grande sala del Direttorio che si sviluppa su due piani, chiusa da un solaio in vetrocemento. I materiali di rivestimento sono autarchici, dal Botticino al marmo di Trani all’intonaco romano. Terragni rinuncia ad utilizzare il lotto intero arretrando il corpo di fabbrica rispetto alla piazza, è un’operazione urbanistica, la scatola bianca, svuotata, costituisce un oggetto prospettico puro dialettico con la bruna montagna alle sue spalle, il Teatro Sociale, il Duomo della città lariana.
Di questo capolavoro dell’architettura razionalista Bruno Zevi ebbe a scrivere come (per lui) «di fascista non ha neppure una remota impronta».
E’ del 1934 la riforma scolastica applicata da Terragni alla scuola dell’Infanzia del quartiere Sant’Elia a Como. Una rivoluzione nel rapporto interno esterno in perfetta unità prospettica per via della trasparenza continua delle vetrate, possibile con l’uso della pianta libera nel posizionamento degli elementi strutturali. Un solo Piano Terra che si snoda in orizzontale, quattro facciate tutte diverse tra loro, un grande porticato a sud per proteggere gli ambienti affacciati sul giardino giochi. Il diaframma vetrato permette ai bambini di restare in sintonia con la natura nel susseguirsi delle stagioni. Le aule interne hanno divisori mobili per adattarle alla progettazione didattica. E’ un capolavoro che anticipa di decenni l’edilizia scolastica moderna. Scrive Ada Francesca Marcianò: “Brano di autentica poesia […] orizzontalità, dinamismo, compenetrazione esterno – interno, flessibilità e massima trasparenza con minima opacità”.
Autentica poesia razionalista è la Villa del Floricoltore a Rebbio datata 1935-37. E’ esaustiva l’immagine del progetto originario riportato nel plastico.
Purtroppo la smaterializzazione del volume, per ragioni del committente Bianchi, subirà almeno tre modifiche sostanziali che ne svuoteranno la rivoluzionaria composizione spaziale.
A Milano il duo Terragni-Lingeri progetta negli anni ’30 diverse case da reddito, citiamo: Casa Ghiringhelli, Casa Toninello e soprattutto Casa Rustici-Comolli l’ultima e la più famosa anche per la scomparsa degli storici cortili interni affaccio dei vani servizio. Sul lotto di via Sempione i progettisti presentano tre blocchi prismatici uguali per dimensioni, ortogonali alla strada. I due laterali sono occupati dagli appartamenti il centrale è vuoto con balconi-ponte orizzontali.
Terminiamo, moltissimo ci sarebbe da raccontare, con il progetto della Casa del Littorio a Roma del 1937, in realtà Terragni presentò al Concorso due soluzioni A e B, noi abbiamo scelto la più coerente con il suo fare architettura: la B che riportiamo secondo ricostruzione nell’immagine sottostante dove è possibile cogliere i bassorilievi disegnati da Sironi.
L’area individuata dal concorso del ’34 (3) era di forma triangolare, confinante con la via dei Fori imperiali, di fronte alla Basilica impropriamenrte detta di Massenzio con sullo sfondo l’Anfiteatro Flavio. Il gruppo di Terragni propone una teca rettangolare articolata in un continuum nei suoi spazi funzionali ma organica nell’insieme.Anche qui le pareti si sciolgono in vetrate continue che permettono di cogliere gli interni ( penso alla “Nuvola” di Fuksas ). Concessioni all’antico Foro sono il porticato, l’alternanza dei pieni con i vuoti creati dall’aggetto delle masse o dal loro rifluire e l’uso sapiente delle proporzioni ottenute dall’applicazione della sezione aurea. Difficile per il progetto arrivare in porto, il fascismo movimento si era solidificato, aveva bisogno di Virgili che cantassero la rinnovata grandezza dell’Impero.

da: www.ereticamente.net

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