Il Kali-yuga della Poesia

di Angelo Tonelli

Una breve riflessione sulla decadenza della figura del poeta e della poesia contemporanea e una proposta di rigenerazione poetica.

Negli ultimi venti anni la poesia in Italia ha visto ridursi esponenzialmente la propria funzione di guida morale e spirituale. Mai come ora essa è stata tagliata fuori dalla comunicazione editoriale. Gli editori non la pubblicano più perché nessuno la legge, e nessuno la legge perché gli editori non la pubblicano e perché non circola più una poesia capace di offrire paradigmi di vita interiore e poeti capaci di incarnare tale funzione della poesia . Trapassati gli ultimi superstiti della poesia ideologica del Novecento, e godendo, per fortuna, di pessima salute le ideologie, al momento attuale la più interiore delle arti sembra avere perduto appeal mediatico, con l’aggiunta di una sonora beffa: vengono trattati da poeti i cantautori che, pur presentando talora carattere di poeticità, banalizzano la poíesis volgendola a ritmi orecchiabili dalle moltitudini, e si cambia il nome di Piazza Dante Alighieri in Piazza Fabrizio De André. I poeti adesso sono troppi e difficilmente riconoscibili per via di una koiné linguistica e formale che consente a molti di scrivere bene, il che è positivo, ma che occulta in questa pletora di agathoí quanti abbiano davvero la Musa “spartita nelle viscere” – per dirla con Empedocle, archetipo del poeta sciamano e sapienziale d’Occidente – e dunque siano davvero araldi dell’animamundi, interpreti dello spirito dei tempi, come li dipingeva lo Shelley di Defense of Poetry, e guida dei popoli, per attraversare la crisi ecoantropologica in atto. Accanto alla responsabilità dei poeti (quelli à la page in Italia si caratterizzano proprio per un minimalismo metropolitano depressionario, o per eccessiva sudditanza all’ideologia cattolica e vaticana, o per un cerebralismo che poco ha a che fare con la profonda dimensione intuitiva dell’ispirazione), assai più grave è quella dei critici, che salvo rarissime eccezioni sono rimasti arenati nella formazione novecentesca, e non sanno cogliere lo spirito del tempo di adesso, che richiede una profonda rivoluzione nel modo di pensare il pianeta, e quindi promuovere nuove parole e pensieri, un nuovo respiro, che solleciti una nuova spiritualità, Sapienza, consapevolezza, senso di appartenenza di ognuno al Tutto; questo nonostante in Italia e nel mondo vi siano voci poetiche ecospirituali che hanno anticipato questa nuova necessaria sensibilità, e si siano anche uniti, grazie alla comunicazione via Internet, in movimenti internazionali.
La poesia , come la meditazione di presenza buddhista, è disciplina apollodionisiaca dello spirito. Entrambe attingono dalla sfera schopenhaueriana della volontà di vivere, o dalla zoé, o dalla vita nel suo palpitare radioso e straziante, la materia-energia del proprio páthos (Dioniso) e lo distillano con strumenti diversi (la scrittura, introversa o comunicativa, per l’una, la contemplazione interiorizzante per la seconda), ma accomunati dalla condivisa postazione di distanza inerente rispetto alla materia-energia emozionale, sensoriale, sentimentale, pulsionale del páthos. Si potrebbe obiettare che tutta l’arte è apollodionisiaca. È vero. Ma la poesia , rispetto alle altre arti, agisce una sottrazione maggiore di sensorialità, nel passaggio dal páthos all’opera realizzata: sono parole espresse in segni alfabetici intercalati a spazi bianchi (quasi mimesi dell’intermittenza vuoto-pieno che caratterizza la relazione tra parola-pensiero e sfondo vacuo da cui sorge), che passano silenziosamente alla mente-cuore del lettore, e nella forma orale attraversano non visibili l’aria per raggiungerne i precordi; la scultura e la pittura invece creano oggetti materiali e sensoriali, e un discorso a parte merita la musica per la sua capacità di cogliere l’immediatezza invisibile e trasmetterla attraverso l’invisibilità del suono. Ma rispetto alla poesia , che pure la sussume a sé, le compete un surplus di espressività e espansione energetica. Torniamo al confronto tra poesia e meditazione di presenza. Esistono varie forme di ispirazione e espressione poetica: emozionale, sentimentale, intellettuale, e la combi nazione di queste. Ma esiste anche una poesia transmentale, che definirei sostanzialmente orfica: qui la parola si inarca oltre di sé e allude all’Assoluto che dimora alla radice delle cose sensibili e riverbera in esse questo stesso Assoluto, che è pura coscienza unitaria. È una poesia che costringe la ratio a cortocircuitare e, per essere intesa, la obbliga al salto nell’intuizione: quel noûs che uno scoliasta anonimo di Platone definiva “occhio dell’anima”, e che ha radici nel sacro profondo. Ma qu anto di orfico si rintraccia nella poesia italiana – e non solo – del Novecento e del primo decennio del terzo millennio, dopo l’esperienza di Dino Campana?

In Italia sicuramente il montalismo, sulla scia dell’automutilazione orfica di Montale stesso (diversamente accade alla parola scolpita nell’eterno di Ungaretti). In Europa e nel mondo l’eliotismo, sulla scia del suicidio sapienziale as sisti to (dalla critica) del poeta archetipo del moderno. La poetica di Montale, all’interno di Ossi di seppia e nel confronto tra la produzione giovanile e quella posteriore, può incontrare una chiave di lettura produttiva nella tensione tra indole orfica e contro-orfica della sua parola poetica: Montale rasenta il muro della conoscenza ma resta abbarbicato all’Io letterario, non si lascia condurre al di là dei “cocci aguzzi di bottiglia” dal misticismo di Orfeo che implica totale assimilazione all’Uno-Tutto naturale. Il poeta stesso si incarica di dichiarare questo suo scacco, che gli garantisce fortuna presso la critica e il pubblico “umano troppo umano” del dopoguerra, che preferisce la depressione, ammantata di letterario, agli stati sapienziali di coscienza. Un po’ come accade oggi.



“…dato mi fosse accordare
alle tue voci il mio balbo parlare: –
io che sognava rapirti
le salmastre parole
in cui atura ed arte si confondono,
per gridar meglio la mia malinconia
di fanciullo invecchiato che non doveva pensare.
Ed invece non ho che le lettere fruste
dei dizionari, e l’oscura
voce che amore detta s’affioca,
si fa lamentosa letteratura.”…
(da Potessi almeno costringere)

“Dissipa tu se lo vuoi
questa debole vita che si lagna,
come la spugna il frego
effimero di una lavagna.
M’attendo di ritornare nel tuo circolo,
s’adempia lo sbandato mio passare.
La mia venuta era testimonianza
di un ordine che in viaggio mi scordai,
giurano fede queste mie parole
a un evento impossibile, e lo ignorano.
Ma sempre che traudii
la tua dolce risacca su le prode
sbigottimento mi prese
quale d’uno scemato di memoria
quando si risovviene del suo paese.”
(da Dissipa tu se lo vuoi)

Diverso, ma non troppo, il caso di Eliot. L’emblema della poesia moderna, colui che dopo Rimbaud diede la maggiore scossa alla relazione contenuto-forma della poesia e che concentrò la sua poetica intorno alla modernità come crisi, in età giovanile fu esoterico e sincretista, vicino come Yeats e Pound e HD alla Golden Dawn di Madame Blavatsky, e meditò di convertirsi al buddhismo (2). The Waste Land trabocca di citazioni dai Sermoni buddisti (si pensi al titolo della sezione III, Il sermone del Fuoco, che è il titolo, appunto, di un sermone buddhista) e dalle Upanishad: il mantra upanishadico DA Datta DA Dayadhvam DA Damyata. Shantih Shantih Shantih fa da refrain della sezione Ciò che il tuono disse, e costituisce l’explicit rituale del poemetto iniziatico; e i Four Quartets si configurano come uno sguardo potentemente orfico sul tempo e sulla storia, contemplati da una postazione metafisica trans-immanente e sapienziale. L’Eliot di The Waste Land – in vecchiaia, per scelta propria o suggerimento del suo entourage, rinnegherà questa fase come un periodo di “illuminata mistificazione”, guadagnandosi in cambio lo scranno di poeta ufficiale dell’anglicanesimo – ravvisa nella spiritualità mistica e sapienziale dell’Oriente (Buddha, Upanishad) e dell’Occidente (Sant’Agostino, San Giovanni della Croce, l’esoterismo del Graal a cui si ispira il poema) (3) la chiave per fuoriuscire dalla sterilità-crisi della Waste Land contemporanea, la civiltà morente che deve trovare – come il Re pescatore del mito che costella in filigrana tutto il poema – un Graal per risorgere.
Questo nucleo essenziale delle opere maggiori di Eliot è stato occultato dalla critica, in particolare italiana, che ha preferito vederlo come “poeta della crisi” tout court, senza coglierne l’aspetto, oltre che di diagnosta, anche di “chirurgo” e guaritore della medesima (4). A distanza di più o meno mezzo secolo il problema si pone con centuplicata urgenza adesso che non solo il modo vigente di pensare il mondo ma anche il sistema economico e relazionale planetario è giunto a un livello di crisi irreversibile. Compito del poietés nell’epoca contemporanea, vero e proprio kaliyuga dello spirito e della civiltà, è far vibrare di Sapienza poesia prosa e pensiero, attingendo, al di là delle ecclesie secolarizzate e colluse con il potere, dalle tradizioni spirituali viventi – tra cui il buddhismo spicca per la profonda riflessione sulla possibile creazione dell’Homo Novus – la scintilla del Risveglio, e facendola collidere e colludere con l’immaginario contemporaneo, in una sempre rinnovantesi creazione di bellezza e intensità artistica. Che sia impulso alla rigenerazione spirituale e quindi politica della civitas umana.
da: www.ereticamente.org

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