Dall'orinatoio di Duchamp al cesso d'oro di Cattelan. Un secolo di pseudo Arte nella lucida analisi di Francesco Bonami
di Tommaso Romano
Leggo da quando ho
imparato a leggere: libri decisivi, saggi fondanti, poesie sublimi, critica e
scienze umane variamente assortite. Senza esagerare e senza falsa umiltà
esibita come una onorificenza, sono diverse migliaia i volumi che accarezzo,
divoro, essi mi lasciano insonne; o che invece abbandono, quasi mai tornandovi,
dopo poche pagine, che trovo a volte inutili altre ripugnanti. È la storia del
libro e della cultura, più vastamente intesa.
Al mestiere di
lettore, che è piacere e a volte sofferenza anche fisica, da gran tempo,
autarchicamente come è mio costume e con delle stelle polari di riferimento che
si chiamano – nel campo suddetto – Piero Gobetti, Leo Longanesi, Giovanni Volpe
e Vanni Scheiwiller, produco molti libri miei e di molti altri, fogli, riviste
di due soli numeri o antiche di trent’anni e viventi.
A qualcuno è nota
la mia dedizione alla causa dell’arte. Con innamoramenti mai rinnegati (il Futurismo)
ma superati nell’ideologia, e con una pratica pittorica durata lo spazio di un
mattino e invece una lunga coerenza nell’approfondimento dell’Estetica e delle
estetiche di tutti i tempi. A tal punto da laurearmi con una tesi di Estetica
dal titolo Dell’oggettività e della sua
problematica nell’estetica di oggi, relatore il professore e poi amico
Filippo Puglisi e correlatore uno scandalizzato e molto sinistro Claudio
Vincentini, che ha poi scalato l’hit parade di storia dell’arte e di estetica,
al contrario dell’autore del Bello in
Manzoni, ovviamente dimenticato dai più. Eravamo nel dicembre 1976 e da
cinque anni avevo già fondato le Edizioni Thule che, appunto, sostenevano e
sostengono l’oggettività di contro all’idea perniciosa che il giudizio della
mia vicina di casa, pur rispettabile, possa essere inappellabile, dato che è bello ciò che piace, e guai a dire –
come faccio, solitario, da allora – che un Michelangelo non è certo un
Pistoteletto qualsiasi.
E, siccome chi adesso
scrive è colui che pensa le cose proprie che scrive (se no, cambi mestiere o ti
robottizzi definitivamente, copiando le scempiaggini di contemporanei come oro
colato di effettiva banalità elevate a gusto e ideologia perversa), il
sottoscritto – forse non molti ne hanno approfondito molto tale aspetto,
rispetto alla messe che pure ho raccolto su molto altro – con distillati ma
costanti interventi, ha sempre sostenuto (e quando ha potuto l’ha anche messo
in pratica con esempi, linee di poetica e polemiche), che l’ultima tradizione
vivente di arte-vita, sia stata il Futurismo, fino ai suoi tardi epigoni; più o
meno, con alcuni artisti – parlo di arti una volta definite figurative – che
variamente, salvo oltre i menzionati futuristi, nell’ultimo secolo di falsità e
sconcezze, hanno resistito: Dalì, Carrà, Soffici, Picasso, Hopper, Munch,
Mambor, De Chirico, Gaudì, naturalmente discernendo genialità, creatività, da
nichilismo e provocazione, fra questi stessi artisti e pochi altri. Un catalogo
scarno, a cui aggiungere pittori onesti, che sanno cos’è arte e mestiere e non
ripetitori ottusi di modi altrui, fasi avanguardisti concettuali dei miei
stivali, trasgressori nell’ovvio.
Meteore, fuochi fatui direbbe Drieu la Rochelle,
campioni della falsificazione di insulse istallazioni tanto temporanee quanto
il loro concettuale cogitare.
Si sarà capito il
mio disgusto antico e il mio dissenso sempre più radicale.
Tuttavia, io non
ho mai scritto né pensato che l’arte debba essere ripetizione acritica di
modelli classici. Ogni stagione, ogni ciclo va chiaramente inteso, ha le sue
caratteristiche, il suo stile, la sua forma, il suo, a volte discutibile,
linguaggio. Dall’orinatoio capovolto (1917) di Duchamp ad oggi, un secolo, fra
musei, collezioni e collezionisti, fruitori, che cercano un senso (e non lo trovano quasi mai se non
per divertito o sbigottito stupore e allora il senso è relativo a questo), ci
consegnano una babele senza incanti ed emozioni interne, biblioteche scritte da
critici e storici dell’arte che si autocitano e autoesaltano a vicenda, fra un
pubblico smarrito che vaga tra Moma, Documenta e Biennali e che ha paura fisica
e intellettuale, di dire che gli abiti nuovi del granduca non sono che
illusioni, una sfilata di nullità elevata a potenza, e che il granduca stesso è
in mutande, al massimo travestito da clown in sfilata progressista e
libertaria.
I pochi e buoni
Maestri di estetica che ho eletto come tali perché tali sono, di questo secolo
che si conclude non in gloria (da Mignosi ad alcune pagine di Croce, a Maritain,
da Attilio Mordini al sommo Hans Sedlmayr a Rosario Assunto, da Roger Scruton a
Jean Clair), insieme a pochi studiosi armati resistenti (Stefano Zecchi,
Sigfrido Bartolini, Luca Beatrice, Vittorio Sgarbi, Aldo Gerbino, Carlo
Fabrizio Carli, Antonio Paolucci, il gruppo fiorentino de “Il Covile” per
restare in Italia), fuori da mafie, consorterie e premiopoli miliardarie,
nonché da aste combinate per far lievitare quotazioni, studiosi i quali continuano
a sostenere il principio che la bellezza non è un buon sentimento nostalgico o
spesso di pessimo gusto pseudoumanitario, non è il tramonto spengleriano, il
culto delle rovine di un passato da ammirare, sapendo che solo scimmiottandolo in
realtà lo si deride e lo si annulla. Perché è la bellezza, difficile a dire e
pronunziarla questa totalità di parola, che include i postulati di sempre:
buono, giusto, equo, luce, verità.
La bellezza è infatti
ricerca inesausta di una perfezione. Il brutto è quindi il suo contrario e cioè
il senso del provvisorio (ben diverso dell’attimo), lo sciatto, il seriale con
variazioni impercettibili, in sostanza il vuoto di idee gabellate come alta
concettualità.
Poco importa,
almeno a chi scrive, che le file degli ebeti votati al loro stesso nulla fanno
la fila per gli eventi, fra
padiglioni che sembrano fiere zoologiche (scusandomi con gli animali, assai più
creativi di tanti “artisti”).
Quello che affermo
l’ho quindi pure teorizzato (cfr. Manifesto
di Thule, 1985), anche partendo da quella mia fuoribonda e giovanile tesi
di laurea ricordata, che costò fatica da difendere a professori in commissione,
del calibro di Giulio Bonafede e Bruna Fazio Allmayer. Cose e tesi che poi ho ribadito,
nei miei scritti e insegnando lettere e poi filosofia e scienze umane e negli
anni che ho trascorsi quale docente a contratto, insegnando grazie a Francesco
Gallo, Estetica all’Accademia di Belle Arti di Palermo e pure, per decenni,
Scienza della Comunicazione all’Istituto Superiore di Giornalismo.
Non mi scuso –
come si usa – del “cappello” (c’è sempre un “cappello” caro Antonino Scarlata)
rivendicazionista e forse molto (troppo?) autobiografico, perché appunto noi
raccontiamo, o dovremmo raccontare, ciò che siamo stati e siamo ed io, credo,
di essermi meritato – con eccezioni che mi consolano il cuore – l’orgoglioso
isolamento in cui beatamente mi ritrovo.
Allora. Alle
quattro del mattino di un fine luglio, termino dopo ore dedicate il giorno
precedente, un breve ma succosissimo volume di Francesco Bonami: L’arte nel cesso. Da Duchamp a Cattelan,
ascesa e declino dell’arte contemporanea (Mondadori, 2017), che sviluppa
con la frusta e senza infingimenti, quanto già coraggiosamente aveva peraltro
avuto modo di indicare nei suoi libri precedenti, pur essi nodali: Lo potevo fare anch’io; Dopotutto non è
brutto; Si crede Picasso, Maurizio Cattelan. Autobiografia non autorizzata.
Confesso di
essermi sentito in buona e chiarificante compagnia con quest’ultimo testo di
Bonami che, si vedrà dalle numerose citazioni, pur non essendo per nulla un reazionario
e nemmeno un teorico e sostenitore dell’Arte
Perenne (come lo sono io, secondo la definizione che volle darmi
l’eclettico e complesso Amico Francesco Carbone, onesto e rigoroso teorico
dell’altra sponda estetico-critica e
che molto piacque, confermandola, a Fortunato Pasqualino), è semmai un libro
che posso indicare come una di quelle salutari svolte, da salutare con un quasi
giovanile entusiasmo. Lo paragono ai toni sulla musica odierna sostenuti con
estrosa genialità, e da me egualmente segnalati, di un Paolo Isotta. Non entro
qui nel ginepraio della moderna architettura e urbanistica.
Bonami è da
premettere, un protagonista, è noto, stimato ed egualmente contestato dai suoi
non pochi oppositori. E ciò lo pone a noi subito in simpatia. Egli ha curato
mostre importanti nel mondo, ed è pure ascoltato opinionista.
Ma il libro in
questione è fortunatamente duro, non è artificioso e meno che meno ruffiano, di
questo fiorentin fuggiasco
naturalizzato americano. Esso è ricco di stroncature vitali e di bonametelici dubbi.
Bonami, appunto,
data un secolo esatto a partire dall’orinale di Duchamp fino ad arrivare al
cesso d’oro di Maurizio Cattelan, il Contemporaneo,
tempo in cui “si andava in galleria a guardare una tela tagliata, ad ammirare
dei cavalli vivi in un garage che si chiamava l’Attico tanto per confondere le
acque, a vedere gente che firmava le persone, a osservare individui rotolarsi
per terra, un tizio pare il cane e mordere i visitatori (…) Duchamp sostituisce
alla semplice realizzazione dell’oggetto l’idea. Non inventa l’orinale ma ha
l’idea di rovesciarlo e pure firmarlo, e persino il coraggio di esporlo. Da
quel momento la storia dell’arte contemporanea è stata una gara a chi aveva
l’idea migliore o più stravolgente o magari rivoluzionaria o provocatoria.
Addirittura si arriva a mostrare solo l’idea o niente (…). Da Duchamp in poi
l’arte diventa un dominio, un’idea ne produce un’altra che ne produce un’altra
ancora, fino appunto alla fine delle idee. Il «cesso d’oro» è la dimostrazione
quasi scientifica che le idee finiscono come l’acqua o il petrolio o come il
caffè a casa propria. Finché le idee aiutano a creare cose e immagini è un
conto, ma se servono solo a generare altre idee la faccenda si fa complicata. Come
se un rigore in una partita provocasse un altro rigore e poi ancora un altro
all’infinito, senza che nessuno però riesca mai a segnare questo benedetto gol.
Così è stato per l’arte contemporanea”. Ottima premessa questa di Bonami, che
si conclude efficacemente così: “L’orinatoio di Duchamp si sa cos’è e nessuno
vuol fare un viaggio apposta per vederlo. Invece Las Meninas di Velazquez, Guernica
di Picasso, La morte di Marat di
David, Oktober 1977, il ciclo di
quadri sulla morte di un gruppo di terroristi tedeschi di Ricther, il Rabbit specchiante di Koons o il Puppy di fiori si rivogliono andare a
vedere e a rivedere”.
A parte il gusto
(questo sì è personale) per alcuni artisti citati che continuano a non essere
in prima fila per me, rispetto ad altri che invece includerei, resta il fuoco
dirimente fra la creazione che produce
e la più concettuosa idea che minimalizza fin quasi all’estensione la
produzione dell’opera stessa. Dalla merda
d’artista di Piero Manzoni sempre disgusto è. E, infatti, nella non statica
dimensione del reale Bonami sottolinea che “l’arte deve sempre rappresentare
una qualche trasformazione anche impercettibile della realtà. Non importa chi
produce questa trasformazione. Importa chi la crea. Il talento manuale non è
così importante. Quale strumento produca l’opera d’arte finale è indifferente.
Le mani, il pennello, lo scalpello, la macchina fotografica, il computer, il
laser. Non è che se Michelangelo avesse scolpito il David con le unghie sarebbe stato più bravo che se lo avesse fatto
con lo scalpello. Oggi se un’artista usa delle tecnologie sofisticatissime non
è che è meno bravo. Ma se la tecnologia non produce trasformazione la creazione
è inutile e diventa solo appropriazione, che è sì stato un piccolo capitolo
dell’arte contemporanea dalla fine degli anni Ottanta, ma non è andata molto
lontano proprio perché non presentava allo spettatore nessun punto di vista
diverso della realtà, gliela serviva proprio com’era, come se in un ristorante
vi servissero un fungo ancora sporco di terra. Una volta magari per curiosità
uno lo mangia, ma una seconda volta non ci casca. Così è stato per l’arte
«appropriazionista». Il mondo è lì a portata di mano, basta prenderlo e usarlo,
ma la creazione artistica è un’altra cosa. L’arte deve saper cucinare il mondo,
se no il mondo non sa di nulla”. Metafore di gusto e disgusto, che ci
introducono all’arte detta concettuale.
Quanti guasti, di passata dirò, ho provocato e provoca Renè Descartes, detto,
orecchiato e conosciuto come Cartesio. Bonami, offre un catalogo della
falsificazione e io lo condivido, ovviamente per difetto, dovendo invero
aggiungere, per esempio, la schiera di artisti del disidentico, gli alfieri proposti da un Bonito Oliva (1997), che mi
toccò ospitare, perché mostra già deliberata dai precedenti “progressisti”, al
palermitano Loggiato di San Bartolomeo, in un interregno, fra i miei tanti.
Citiamoli, almeno, alcuni di questi “campioni” finalmente e sanamente
dissacrati e fatti scendere dal piedistallo (precario, come le loro creazioni):
Ronald Ryman, Donald Judd, Carlo Cracco, Joseph Kosuth, Michael Asher, Simon
Starling, Martin Greed, Mary Kelly, Helen Marte, Charles Oller, Tomas Saraceno,
On Kawara, l’elenco è lungo quanto questa lunga contemporaneità che è figlia
diretta e diletta di una modernità che non si è affatto conclusa nella pretesa
post-modernità. Ecco alcune fulminanti considerazioni del nostro Bonami:
“L’artista progettuale suggerisce cosa uno doveva dare o cercare nella sua
opera mentre l’artista oggettivo, diciamo, è quello che mostra e se è bravo stimola
automaticamente la curiosità dello spettatore, mentre se è una chiavica lo
spettatore tirerà dritto senza batter ciglio”. (Mi si perdoni ancora l’ardire e
l’immodestia, ma chi scrive queste note, sull’oggettività tali considerazioni
le faceva già nel 1976…!). Torniamo però a Bonami (certo ignaro di un
intellettuale operante ai confini dell’impero del politicamente corretto, che invero impone la sua dittatura e perciò
assolvo il Bonami perché il fatto, pur sussistendo, non poteva che essergli
ignoto), il quale continua a deliziarci con rara efficacia: “Insomma l’arte è
diventata uno strumento per dar voce alle proprie lamentele o magagne
quotidiane, che potrebbero essere anche una bella cosa, se però si volesse fare
almeno lo sforzo di esprimere le suddette magagne e lamentele con un disegnino,
una canzoncina, un pezzettino di carta tagliata con le forbici. No! Non se ne
parla neppure. All’arte son sufficienti per esprimere le semplici cose della
vita. Tipo tutti quegli scontrini della lavanderia automatica raccolti in un
anno e mostrati in rigido ordine cronologico sulle pareti di una galleria o,
fatto ancor più grave, avendo il visitatore sborsato denaro per un biglietto,
sulle pareti di un museo. L’artista non ha più voglia di sintetizzare in un
oggetto vagamente comprensibile il suo fare e il suo dire. Sfacciatamente fa
una cosa – attaccare sul muro con lo scotch la ricetta del medico – e poi dice
da qualche parte, in un comunicato stampa o magari coraggiosamente a voce,
quello che ha fatto e perché. Ma questa metodologia, per quanto rigorosa possa
essere, non è arte, è presa per i marroni. Per quanto oscuro possa essere, il
gesto artistico e il suo risultato devono avere una loro unità. Posso anche
guardare uno scontrino ma in questo scontrino deve accadere qualcosa che è
diverso o di più della sola data e dal totale della spesa sostenuta con chissà
quali sacrifici da parte dal coglionissimo autore”.
Le poche voci
interne ed esterne (vivaddio il pubblico dovrà pur contare rispetto ai paludati
critici autorefenziali) al mondo dell’arte dissenzienti, sono chiaramente
confinate nell’oblio, iscritti d’ufficio fra la schiera dei reazionari che
nulla comprendono. Eppure i mezzucci restano tali, i “trucchi” d’artista, “al
di là della motivazione concettuali, culturali, politiche e artistiche,
rimangono tali”. Come dire, sottolinea Bonami, il rapporto fra un selfie e
l’autoritratto (o il ritratto) nel quale “l’artista scavava sé stesso e la sua
anima traducendola di solito in uno sguardo lancinante che paralizzava lo
spettatore. Oggi l’intensità dello sguardo è stata sostituita dalla stupidità
del sorriso e l’autoritratto stesso è diventato sfondo per il selfismo. Non è
un caso che selfie suoni molto come selpych, che vuol dire egoista. Le
immagini sono diventate egoiste e questo alla lunga non può che influenzare la
produzione artistica”.
Senza ricorrere a
romanticismi datati, continuando sull’argomento, Bonami con realismo sottolinea
una perdita che è la chiave di volta di una riflessione che pure, appunto
sostenendola, ci appartiene: “L’arte è sempre stata frutto dell’egocentrismo
dei suoi autori, ma la migliore arte tentava attraverso l’egocentrismo di
parlare di cose universali, profonde anche se intime, a volte”.
Mentre Bonami
sottende e lascia libertà interpretativa riguardo all’origine e al senso del fare dell’arte, chi scrive si collega
esplicitamente, invece e con le innovazione necessarie, al perenne della ragione ideativa che porta l’uomo-attraverso la ri-creazione
della parola, del suono, dell’immagine che si manifestano in atto nel compimento
dell’opera e non solo nel mostrare il presunto “concetto” – a stupirsi,
meravigliarsi della terra e del cosmo e, osservandola, a farne parte come di un
frammento del Tutto, che non è certo opera sua. Questa trascendenza, questa
consapevolezza d’Infinito porta non a contemplare il proprio ombelico, sordi al mondo, quanto, appunto, alle cose universali, profonde anche se intime,
di cui scrive Bonami, che aggiunge: “La forza dell’arte era quella di essere un
punto focale, il centro dell’attenzione, ora questo centro siamo noi, senza la
ricerca di un senso, dei perché da dove e verso dove: non guardiamo più
qualcosa ma ci guardiamo guardare, nel migliore dei casi. Nel peggiore, ci
guardiamo dando le spalle al mondo e quindi dando le spalle all’arte”.
Sia ben chiaro, a
questo punto nodale del discorso, che l’artista è sempre libero ma nel momento
in cui decide di relazionarsi ad altri, al mondo, i suoi “parti” non si possono
ritenere arte in una sorta di onanistico
hortus conclusus. Può, certo, egli
dare i significati che vuole, può non darglieli affatto, ma non pretendere di
affermare, e quindi giustificare il proprio nulla se non come una inseminazione
sterile, inconcludente farsa che va quindi smascherata come pretesa e albagia. È,
perciò, l’allontanamento radicale dall’arte. Non ci si illuda delle fila per
entrare nella giungla dei minimalisti e dei concettuali che si espongono o
espongono i loro propri panni e scontrini come originali istallazioni geniali.
Si fa la fila per vedere maghi ed effetti speciali ed anche per partecipare a
riti infimi di massa, a pagare per vedere allo stadio qualcuno che calcia un
pallone che, a sua volta, per giocare è pagato quanto un uomo che sgobba
onestamente una vita, si fa la fila per applaudire a vuote parole, a canti
inconsulti. Non è sintomo questo di vitalità, forse è invece l’espressione di
una degradazione del gusto, del senso comune di guardare e immergersi nell’arte
come realizzazione di aspirazione, di profondità, di uscita dal puro
utilitarismo, dal “quanto vale”. Non è il silenzio del nulla, è il nulla che si
silenzia in circoli sempre più chiusi, angusti, autoreferenziali, con pretese
di esoterismi in realtà inconsistenti, sostenuti da autodichiarazioni
all’anagrafe dell’essere artisti in nome di una vera e propria libertà –
tirannia anarchica per la quale, dato che tutti hanno, teoricamente, un quid creativo tutti sono automaticamente
artisti (e a questo proposito Bonami cita la tesi di Joseph Beuys, pur a suo
modo geniale). L’effetto di tale circo Barnum proprio della vicenda dell’arte
che passa per arte e che così viene gabbata e sponsorizzata come tale, e preso in
tale vortice” lo spettatore curioso e appassionato diventa insicuro e timoroso
di esprimere i propri sentimenti davanti alle opere d’arte”.
L’arte, continua
Bonami, “prima di tutto deve parlare a chi guarda. Come se uno andasse a un
appuntamento amoroso con una persona per la prima volta e lì trovasse un tizio
che pretende di spiegargli chi è quella persona. L’arte è prima di tutto
scoperta, e solo in seguito studio e conoscenza”. Tale scoperta, aggiungo io,
per quanto valida per il soggetto che scopre – rispettabile in sommo grado –
non può però avere la pretesa del giudizio che da individuale pretende di
essere universale. L’impostura cartesiana torna con il “penso quindi sono” e come
“misura di tutte le cose” di Protagora. Fra pretese assolutizzanti e anestesie
globali, un bel ruolo lo detengono i critici e i mass media: questi ultimi, dice
efficacemente il Nostro autore, sono in realtà “molto spesso refrattari
all’arte contemporanea e ai suoi misteri, non aspettano altro che trovare
qualche personaggio fraudolento che si vesta da artista per poterne parlare
senza doversi allontanare troppo dalla cronaca e così i cattivi artisti
chiacchierati diventano celebrità seppure cerebrolese”. E magari in tal modo si
arriva con le truffe spacciate per oro, alla pseudo consacrazione del
Guggenheim.
Anche la tecnica e
quindi la sua applicazione nella tecnologia, può diventare, nell’ambito
dell’arte, tecnolatria dell’immagine falsa, manipolata e fine a se stessa o,
ancora, inganno spettacolarizzato in povertà di fantasia, preda di emozioni
elementari, transitorie, fragili, che non provocano alcuna effettiva metànoia,
al massimo sbigottimento. Osservate la velocità dei visitatori nei musei, il
fulmineo loro scorrere davanti alle opere e lo sguardo altrettanto fuggente che
ad esse si dedica: una sostanziale non esperienza accompagnata da selfie e da
auricolari, che ti vogliono spiegare ciò che spiegabile non è. Esattamente come
fanno coloro che spiegano, a loro
modo, una poesia, facendola spesso odiare - con un tal “metodo” – a vita. Altro
è il senso del penetrare e del compenetrarsi in un’opera; la metamorfosi,
l’emozione, la passione che essa provoca ed anche il suo contrario. Che poi si
debba studiare e comparare non è solo giusto ma è necessario, intanto per
contestualizzare e quindi adeguatamente comprendere stili e gusti. Resta fermo
che dipingere o scolpire o comporre alla
maniera di è puro, a volte alto, artigianato ripetitivo che non è e non può
però diventare arte. Per quanto inattuali nello spirito rispetto al tempo
inclemente e al mondo che ci si trova a vivere, non si può pensare ad un sublime decontestualizzato, che è solo
ed altro una rispettabile aspirazione intima. Il mondo lo si vive comunque e
nel disgusto bisogna combatterlo, oppure decidere di essere spettatori, come
diceva la Arendt, non attori. Non si vive ora nel Rinascimento, ma piuttosto
nell’inferno di quello che viene ritenuto, a torto, come il migliore dei mondi
possibili. Ma la tecnica per quanto straordinaria, non è mai bastata per fare
un’artista. Lo snodo è dato dalla consapevolezza nell’inganno virtuale nel
banale elevato a potenza, rincretinente dei contemporanei! Bene fa Bonami a non
confondere l’arte moderna che inizia l’adorazione del moderno e che inizia con
gli Impressionisti con il ricordato orinatoio di Duchamp e con l’arte povera, che diviene
inevitabilmente solo povertà di segni, idee, di autentici manufatti: “Se una
volta il gesto più radicale era appendere in una galleria una semplice tela
bianca, oggi la provocazione più grande sarà la mela stanca, ovvero una mela
lasciata su un piatto tanto tempo che finisce per sbucciarsi da sola”.
Il linguaggio
critico e spesso insensato dei critici e dei teorici dei “progetti”, è la
controprova che bisogna anzitutto diffidare dalle “firme”, la cui autorevolezza
è certificata dalla consorteria, dalla setta che annovera altre firme
“autorevoli”, che sostengono gli artisti. I quali sovente divengono mediocri
scenografi ben sostenuti nelle loro pretese. Job e Cattelan ne sono esempi di
sicura evidenza. Perciò, sostiene Bonami, l’arte contemporanea è diventata
spesso “una questione di confezione e di presentazione”, sottolineando come “il
successo di certa arte, paradossalmente, mette a rischio la sua stessa
esistenza e il piacere dell’esperienza”. Godiamo come suono puro insieme,
quanto Bonami scrive e che proponiamo di seguito, ben sapendo quante volte
specialisti e cultori, amanti e appassionati, curiosi fruitori e noi stessi da
sempre affermiamo in solitaria, ed ora con un più forte avallo: “L’arte non può
risolvere i problemi del mondo, può forse raccontarli, ma non sfruttarli. Gli
artisti che vogliono fare i diplomatici, gli antropologi, gli scienziati o
altre occupazioni – se non più serie molto più specifiche di quella artistica –
mostrano un’incapacità creativa, cercano di convalidare le proprie opere
attraverso attività parallele, portate avanti in modo approssimativo e
raffazzonato. Come se un artista decidesse di fare il vigile urbano come opera
d’arte: sicuramente qualcuno ne parlerebbe, anche se per poco, ma di certo non
sarebbe più un’opera d’arte. Una delle caratteristiche migliori dell’arte è
sempre stata quella di essere una cosa abbastanza inutile, un’attività
indipendente e autonoma da certe beghe del mondo, una valvola di scarico dove
l’individuo può trovare sollievo proprio dalle beghe del mondo. Oggi poi che
tutte le beghe del mondo sono a portata di clic, entrare in una galleria o in
un museo e ritrovarne la parodia delle tragedie umane, volendo farci credere
che un’opera d’arte è utile, è come voler usare un fiore come forchetta per
mangiare un piatto di pasta: si rovina il fiore e pure il piatto di pasta”.
L’assemblaggio
compulsivo di cose diverse è non raramente effetto di un processo paranoico,
spacciato e sostenuto come arte; il semplice fissare una cosa esistente e
decontestualizzarla unisce così i celebrati istallatori creativi e concettuali:
Peter Fishli e David Weiss, Christopher Woel, Giuseppe Penone, Marina Abramovic
e Kevin Nguyen con T.J. Khayatan. Basta poi il posare un occhiale qualunque a
mò di scherzo su un pavimento di legno del San Francisco Museum of Modern Art,
per catturare morbose attenzioni verso chi sa quali reconditi, misteriosi e
sempre concettuali presupposti “d’arte”. Lo stesso vale per le fotocopie
ingrandite di Wade Guyton o le scarpe di Prigov, le “creazioni” di Hurs e
Parrino e le sbornie della Cina e senza dimenticare il sangue di Hermann Nizsch
(di cui non parla però l’autore). In positivo Bonami cita, giustamente, le
opere di Charles Ray.
L’esposizione e
presentazione fin qui guidata del libro sanamente provocatorio di Francesco
Bonami, si chiude con le seguenti espressioni, che riprendiamo, sul destino
dell’arte, che dovrebbe essere quello di “farci entrare in una storia, farci
iniziare un viaggio senza doversi mai spostare. Ma questo non posso farlo io,
non potete farlo voi. Lo possono fare
solo i veri artisti”. Qualche parola ulteriore come chiusa al bel testo, libero
e chiaro di Francesco Bonami, proprio a partire dai richiamati veri artisti,
che vivono e intendono, non solo emozionalmente, il sentire, il fare arte. Un
giudizio che ci distanzia da Bonami è invece quello su Mitoray, ma merita
un’altra nota. Diciamo che questi artisti, pur rari e mal compresi nella loro onestà
e qualità, operano, lavorano, producono bellezza, a volte ci convincono e ci
fanno riflettere; a volte sperare e raramente, sia detto, ci entusiasmano in
modo duraturo. Sono spesso sottostimati, in assenza delle luci del varietà che non
li illuminano, con le riviste, i media, i critici che agiscono solo in funzione
di pubblicità e di mercato e che, peraltro, i “dotti” guardano dell’alto in
basso, come a quei sopravvissuti ignari delle magnifiche sorti e progressive che li circondano e perciò appestati,
da ghettizzare nel comportamento e nel muro del silenzio. Essi sono, invece,
gli eroici militi, spesso ignari e ignorati, di una generosa, autentica
resistenza al brutto, al triviale, al banale, al consueto, al conformismo dei
falsi anticonformisti, che sono in realtà proni alle mode, integrati alle
tendenze imposte nell’arte contemporanea e dei suoi turiferari.
Tornano a farsi
imperiose, quindi, oltre all’esame sociologico crudo e alle sottolineature
necessarie di un nichilismo odierno informe e sostanzialmente decadente, le
prospettive di estetiche fondanti, di idee di bellezza che diventino atto verso
produzioni non seriali; ripartire in sostanza da identità non deboli e
compromissorie, da un radicamento ideale non ideologistico, ma neppure
vagamente spontaneistico, vitalistico o naturalistico. Insomma da una
spiritualità libera da legami con la logica del mondo. Tornare all’arte,
quindi, non certo al canone prestabilito con tanto lavoro e sudore, con
pazienza, nel silenzio e nella meditazione, riscoprendo l’incanto del mito, del
simbolo, la verità della luce, la natura, la magia dei colori, le ombre, l’armonia
delle forme, con la comprensibilità, con la chiarezza che pacifica e non
mortifica l’intelligenza e la sensibilità. Tornare ai postulati non del passato
riprodotto acriticamente e neppure alle similfotografie. Ritrovare ed esprimere
valore e senso, anche pedagogico, senza crollare nel didascalico o nel falso
realismo delle esaltazioni propagandistiche, ben note e strumentalizzate nel
recente passato. Naturalmente potremmo indicare tanti artisti che meritano
rivalutazioni salutari, attenzione, rispetto, considerazioni critiche ulteriori
e da consigliere, con galleristi accorti, al pubblico, agli svagati
collezionisti che credono nel vangelo apocrifo di una comunicazione drogata e
veicolata verso artisti ed opere espressioni di clan e sette mercantili e di
teoretiche pseudo filosofiche. Comunque, per tornare a quanto si diceva,
occorre anzitutto dire e sostenere chiaro e forte, che il nulla va evidenziato
come tale. È già tanto il potersi confrontare con autori e critici fuori dalle
pastoie e liberati dal mercimonio e pertanto rendiamo grazie a un Francesco
Bonami, rimandando ad ulteriori linee teoriche, più articolate ed esaustive, e che
ci proponiamo come non lieve e ulteriore compito.
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